I volti dei diritti

Il progetto “I Volti dei Diritti” mira a diffondere e valorizzare l’impegno di 12 figure pubbliche che si sono distinte nel loro impegno sociale e politico su quattro grandi temi di attualità: i diritti delle persone razzializzate, i diritti delle donne e della comunità LGBTQI+, il diritto alla salute e il diritto ad una giustizia climatica e sociale. Quattro aree diverse, ma fortemente interconnesse fra loro nell’intersezionalità della lotta per i diritti di tuttə. Per fare ciò verranno realizzate 12 sagome in collaborazione con 13 artistə di diversa estrazione ed esperienza, da esporre nei luoghi più frequentati del territorio cittadino.

Un progetto di Black Lives Matter Bergamo, Fridays For Future Bergamo, Bergamo Pride;
in collaborazione con Club Ricreativo di Pignolo ONLUS;
con il patrocinio del Comune di Bergamo.

Puoi sostenerci partecipando al crowdfunding.

 

Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi

Sono le fondatrici del movimento attivista Black Lives Matter negli Stati Uniti, che si sviluppò a luglio 2013 all’interno della comunità afroamericana a seguito dell’assoluzione di George Zimmerman, un uomo di ventinove anni che nel 2012 aveva sparato a un ragazzo afroamericano diciasettenne, Trayvon Martin, uccidendolo.

Zimmerman era un volontario della vigilanza di quartiere a Twin Lakes, Florida, e si occupava di segnalare al dipartimento di polizia della zona problematiche come disturbi della quiete pubblica o tentativi di irruzione e furto nelle abitazioni. Il 26 febbraio 2012 Martin si trovava a Twin Lakes a casa della fidanzata del padre assieme al figlio di lei ed era uscito per andare in un negozio locale; al suo ritorno venne notato da Zimmerman, che lo segnalò alla polizia come figura sospetta per poi seguirlo. Tra i due ci fu una discussione che si concluse con l’uccisione di Martin a cui Zimmerman aveva sparato.

Zimmerman dichiarò di aver agito per legittima difesa, ma non c’erano testimoni che potessero fornire informazioni complete sulla vicenda.

L’episodio sconvolse comunque l’opinione pubblica perché Martin rappresentava l’ennesima persona nera considerata sospetta e che subiva un’ingiustizia per il colore della sua pelle.

In un’epoca in cui i social media assumono un importante ruolo di diffusione delle notizie fungendo anche da cassa di risonanza per le voci delle persone razzializzate, tre attiviste afroamericane diffusero l’hashtag #BlackLivesMatter, che diede poi il nome al movimento: Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi.

Garza scrisse subito un post su Facebook che venne poi ripreso e rilanciato massivamente da molte persone che si erano identificate nella figura di Martin:

We don’t deserve to be killed with impunity. We need to love ourselves and fight for a world where Black lives matter. Black people, I love you. I love us. We matter. Our lives matter.” (traduzione: “Non meritiamo di essere uccisə impunemente. Abbiamo bisogno di amare noi stessə e di combattere per un mondo in cui le vite nere contano. Alle persone nere, vi voglio bene. Voglio bene a noi. Noi contiamo. Le nostre vite contano.”)

Cullors e Tometi si unirono quindi all’appello di Garza, attivandosi per lanciare l’hashtag e il sito web per connettere persone da ogni punto degli Stati Uniti ma non solo. Presto prese piede il movimento di protesta nell’ottica di denunciare e contrastare le discriminazioni contro le BIPOC, ovvero Black, Indigenous and People Of Color (“persone nere, indigene e di colore”), specialmente l’abuso di potere e le violenze da parte della polizia e il razzismo insito nel sistema giudiziario statunitense.

Alicia Garza è una scrittrice attiva, oltre che sulla questione antirazzista, anche sui temi del diritto alla salute, i diritti studenteschi e i diritti delle persone transgender. Ha scritto un libro intitolato “Lo scopo del potere: come unirsi quando si cade a pezzi”.

Patrisse Cullors è un’artista, educatrice e public speaker attiva sul tema della giustizia penale, a proposito delle violenze e gli abusi di potere all’interno delle carceri e sui diritti della comunità LGBTQIA+.

Opal Tometi è una scrittrice ed ex direttrice esecutiva di BAJI, Black Alliance for Just Immigration, la prima organizzazione nazionale negli Stati Uniti per i diritti delle persone immigrate di origine africana, interessata alle tematiche di giustizia sociale ed economica.

Grazie al lavoro delle fondatrici il movimento ha abbracciato quindi fin dall’inizio anche altre battaglie sociali come il femminismo, l’identità di genere, una maggiore equità economica e sociale giovanile.

Qui il disegno ad alta definizione, realizzato da Paolo Baraldi, che puoi trovare su instagram @paolo.ilbaro.baraldi

 

 

 

 

 

 

 Giorgio
Marincola

Chi è e perché è giusto ricordarlo?

Nasce nel 1923, il 23 settembre, a Mahadaay Weyn, presidio militare italiano a nord di Mogadiscio (Somalia) da padre italiano, Giuseppe Marincola, e madre somala, Aschirò Hassan.

Il padre, sottoufficiale italiano, decide di riconoscere come suoi figli Giorgio e la sorella Isabella, nata nel 1925. A differenza della maggioranza dei figli nati da militari italiani e donne africane, il padre di Giorgio decide di portare i due figli in Italia con sé nel 1926, permettendogli così di ottenere la cittadinanza italiana.

Arrivato in Italia, Giorgio viene affidato allo zio paterno Carmelo e a sua moglie Eleonora Calcaterra, residenti a Pizzo Calabro, mentre Isabella resta a Roma con il padre ed Elvira Floris, la moglie italiana. Il ragazzo cresce in un contesto sereno e circondato da affetti, almeno per quanto riportano le memorie familiari; contesto ben lontano da quello strutturato che caratterizza la Roma capitale del Regno e cuore della propaganda fascista. A dieci anni il bambino lascia la realtà pizzitana e si trasferisce a Roma dove frequenta le scuole medie (il ginnasio) presso il liceo-ginnasio Umberto I, non lontano dall’attuale stazione Termini. 

L’adolescenza di Marincola è segnata dalla conoscenza, nel 1938, di Pilo Albertelli, suo professore di storia e filosofia nonché filosofo idealista noto alla polizia per il suo forte spirito antifascista (che nel 1928 gli costò l’arresto). Albertelli sicuramente è uno dei principali mentori dei partigiani romani e dei molti antifascisti che lo hanno incontrato: fa parte del movimento liberal-socialista di Calogero e Capitini, è partigiano nelle file del Partito d’azione a Roma, dove muore nel 1944 nella strage delle Fosse Ardeatine. È grazie a Pilo che Giorgio inizia a conoscere i propri diritti e ad esercitare il suo spirito di critica, di dissenso, di libertà e di giustizia sociale; sono anche questi gli stimoli che portano alla crescita del sentimento antifascista di Marincola, crescita descritta e raccontata da lui stesso in appunti ritrovati e conservati nella casa d’Infanzia in Calabria, a Casal Bertone.

A vent’anni Giorgio, studente di medicina, decide di prendere parte alle formazioni armate del Partito d’azione in compagnia degli amici e compagni di studi Caio Cefaro e Corrado Giove, partecipando attivamente alla Resistenza romana. Nella primavera del 1944 viene trasferito dal partito in una banda partigiana nel viterbese fino a che il 4 giugno, dopo la liberazione di Roma, decide di continuare la Resistenza arruolandosi con l’intelligence militare britannica, lo Special Operations Executive.

Nell’agosto dello stesso anno, dopo un breve periodo di addestramento, prende parte ad una missione alleata in provincia di Biella: la missione Bamon. Sempre a Biella nel gennaio successivo, dopo aver preso parte a missioni di collegamento con il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI), viene arrestato e costretto a parlare ai microfoni di Radio Baita, radio di disinformazione tedesca. Giorgio deve leggere un messaggio volto a denigrare la Resistenza e a trarre in inganno i suoi compagni. Non lo farà. Invece di leggere il copione sottopostogli Giorgio riafferma la sua convinzione negli ideali di libertà, dicendo:

“sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica. La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i popoli del mondo. Per questo combatto gli oppressori.”

In seguito a queste sue parole la trasmissione viene prontamente interrotta e Giorgio viene picchiato senza pietà dai suoi carcerieri. 

Nel marzo 1945 viene deportato in un campo di concentramento nazista, il Polizeilicher Durchganglager di Gries (Bolzano), dopo essere passato per le carceri di Torino e Milano.

Il lager verrà liberato il 30 aprile 1945 e Giorgio, finalmente libero, invece di riparare in Svizzera come gli era stato ordinato dal comando della missione, decide di unirsi ad una banda partigiana della Val di Fiemme, in Trentino (regione ancora sotto il controllo nazista). Cinque giorni dopo, il 4 maggio 1945, un reparto di SS in ritirata si scontra con la banda trentina tra le località di Stramentizzo e Molina di Fiemme e effettua così l’ultima strage nazista in Italia, uccidendo 27 persone. 

Dei morti a Stramentizzo 11 sono partigiani e Giorgio è tra questi.

Nel gennaio 1946 l’Università di Roma conferisce alla memoria di Giorgio Marincola la laurea “ad honorem”, nel 1964 si intitola una via di Biella al partigiano italo-somalo.

Giorgio Marincola, Medaglia d’Oro al valore militare, merita sicuramente più attenzione e riconoscenza di quella che finora gli è stata rivolta. Un giovane ragazzo che diede la sua vita per gli altri, non si fece fermare né dalla paura né dalle divisioni dovute al colore della pelle, Giorgio fu uno degli italiani che amarono l’Italia fino alla morte: l’Italia tutta, l’Italia libera.

Siamo infinitamente grati a Giorgio Marincola.

Se vuoi approfondire, la sua vicenda è raccontata nel libro, a cura di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, Razza partigiana.

Qui il disegno ad alta definizione, realizzato da Leonardo Rizzoli, che potete trovare su instagram @a_volte_ritorno.

 

 

 

 

 

Thomas
Sankara

Thomas Sankara (1949 –1987) è stato un militare, politico e rivoluzionario burkinabé. Figlio di Marguerite e Sambo Joseph Sankara, ferventi cattolici di etnia Silmi-Mossi, dopo il diploma decise di intraprendere la carriera militare e durante la sua formazione si avvicinò agli ideali socialisti e marxisti. Divenuto un ufficiale, durante la dittatura militare del colonello Saye Zerbo venne nominato Segretario di Stato, ma a causa delle sue divergenze rispetto al resto dei politici del regime si dismise e venne arrestato; pochi mesi dopo ci fu un colpo di stato che scalzò i vecchi politici e Sankara venne nominato primo ministro per la sua popolarità nell’esercito e nella popolazione, ma sempre a causa di una diversità di approccio da lui portata avanti, come uno stile di vita modesto e un’attenzione verso le richieste del popolo, venne nuovamente arrestato, ma in seguito ad una rivolta popolare venne liberato. Dopo questi fatti lui viaggiò per il mondo e ritornò in patria dopo il colpo di stato guidato dall’amico Compaoré per prendere le redini del paese e iniziare una serie di riforme che rivoluzioneranno L’Alto Volta (ex-Burkina Faso); infatti, fu proprio lui che cambiò il nome del paese in Burkina Faso, che significa “terra degli uomini integri”. Le sue più importanti battaglie furono:

  • La diminuzione della spesa pubblica con l’abolizione di privilegi e lusso per politici e militari e con una feroce lotta alla corruzione.
  • Il miglioramento delle condizioni delle donne favorendo la loro partecipazione a cariche politiche e militari, oltre che incoraggiandole a ribellarsi contro il maschilismo e a studiare nonostante le difficoltà; in più si occupò di assistere le donne che per disperazione si davano alla prostituzione cercando di garantire delle alternative a questa professione; infine, abolì la poligamia e l’infibulazione.
  • La lotta all’AIDS: durante la sua presidenza fece numerose campagne per sensibilizzare la popolazione sull’importanza dei contraccettivi e fu uno dei primi leader africani a riconoscere l’AIDS come una piaga sociale.
  • La funzione sociale ed economica dell’esercito, per far sì che l’esercito producesse beni di prima necessità per distribuirli alle persone.
  • L’abbassamento dei prezzi delle merci: infatti, molti beni che erano inaccessibili in Burkina Faso lo erano perché importati; Sankara cercò di far sì che si importassero le materie prime per poi lavorarle in loco e abbassarne il prezzo, in più decise di rendere l’acqua un bene accessibile a tutt* creando delle dighe.
  • Lotta al neo-colonialismo: Sankara cercò sempre di opporsi agli aiuti forniti dai paesi occidentali che servivano solo a far crescere le loro economie a discapito di quella burkinabé.
  • Sostegno alle piccole imprese: durante il suo governo cercò di favorire le piccole imprese artigianali e manifatturiere favorendo l’assunzione di manodopera da formare; in più cercò di aprirsi agli investimenti stranieri, a patto che questi portassero benefici anche alla popolazione.
  • Stop alle importazioni inutili: per fermare la povertà causata dall’importazione di molti beni superflui si cercò di portare avanti una cultura anti-consumistica così da limitare queste importazioni.
  • Partecipazione popolare: per permettere alle persone di esprimere i loro dubbi o le loro critiche rispetto al governo venne istituita una rete di radio in cui si poteva entrare e dire ciò che si voleva.
  • Contrasto alla desertificazione: il governo promosse una campagna di riforestazione della zona del Sahel per fermare la desertificazione riuscendo ad impiantare milioni di nuovi alberi.

In generale tutta la politica portata avanti da Sankara era incentrata su un’idea di stato il cui compito è quello di opporsi agli interessi delle multinazionali o degli stati occidentali per favorire l’economia locale, la partecipazione del popolo nella politica e i diritti delle minoranze; questo non significa però che egli fosse un nazionalista o un autarchico, era una persona che credeva fermamente nella cooperazione internazionale, ma era anche estremamente critico rispetto alla cooperazione di allora. Emblematica è la sua frase: «L’aiuto di cui abbiamo bisogno è quello che ci aiuti a fare a meno degli aiuti». Fu un grande sostenitore del panafricanismo, infatti egli auspicava a creare un blocco economico africano capace di opporsi alle politiche economiche imperialiste statunitensi ed europee; a questo proposito, egli sosteneva che i debiti contratti con la banca mondiale e i paesi ricchi non andassero restituiti nell’immediato, ma che quei soldi dovessero essere investiti nell’istruzione e nelle politiche di sviluppo dell’economia africana. La sua figura è così amata e conosciuta nel continente africano soprattutto per l’integrità che ha dimostrato durante la sua vita: infatti, oltre a denunciare l’imperialismo americano e francese, si oppose anche all’invasione sovietica dell’Afghanistan, dimostrandosi capace di criticare anche chi avrebbe dovuto essergli affine ideologicamente; in più durante tutta la sua carriera politica cercò sempre di restare umile e di ascoltare i bisogni e le necessità del popolo, dimostrando anche di avere la volontà di mettere in pratica ciò che prometteva ai suoi cittadini e di non disattendere agli impegni presi verso il popolo. Un’altra particolarità della sua politica e del suo pensiero rispetto agli standard dell’epoca è la sua attenzione rispetto alle tematiche legate al genere: infatti, lui credeva che l’emancipazione delle donne fosse un obiettivo molto importante da perseguire e cercò di portarla avanti facendo discorsi e incentivando le donne a ribellarsi al maschilismo. A causa delle politiche antimperialiste e panafricane adottate nel corso della sua presidenza, Sankara si fece nemici paesi come gli Stati Uniti e la Francia che, vedendo come la sua popolarità fosse costantemente in crescita e che il modello economico da lui adottato stava funzionando e dava i suoi risultati, decisero di bloccarlo e organizzarono un golpe insieme al suo compagno Campaoré. Sankara venne assassinato insieme ai suoi più stretti collaboratori e il regime che si venne a formare cercò sempre di oscurarne la memoria, cercando di impedire le commemorazioni per la sua morte, cancellandolo dagli archivi storici e non citandolo, oltre che cancellando tutte le riforme che stava portando avanti, facendo ritornare il Burkina Faso uno stato controllato dagli interessi economici dei paesi più ricchi e delle loro aziende. Nonostante la sua morte prematura e la censura che si è provata a fare sulla sua figura, la vita di Thomas Sankara rappresenta la speranza di un futuro di giustizia ed uguaglianza per il continente africano, ma soprattutto, rappresenta la consapevolezza che questo futuro è possibile!

Qui il disegno ad alta definizione, realizzato da Iside Vecoli, che puoi trovare su instagram @soloankh e sul suo sito.

 

     

 

 

 

Ken
Saro-Wiwa

“The most important thing is that I’ve used my talents as a writer to enable the ogoni people to confront their tourmentors. I was not able to do it as a politician or a businessman. My writing did it. And it sure makes me feel good. I think I have the moral victory”

Kenule Beeson “Ken” Saro-Wiwa è stato tante cose nel corso della sua vita. Uno scrittore, un produttore ed editore, un accademico; un attivista, un ambientalista, un leader per la difesa dei diritti del suo popolo. Non è facile ridurre a poche righe il racconto di una vita il cui impatto sul mondo è stato così largo e profondo, tale da renderlo una delle figure più importanti all’interno del quadro di creazione di un nuovo immaginario culturale postcoloniale e della lotta contro la devastazione ambientale ereditata da quello stesso modello coloniale.

Ken Saro-Wiwa nasce il 10 ottobre 1941 a Bori, una città nigeriana situata nella regione dell’Ogoniland. Fin da ragazzo conduce una brillante carriera scolastica che trova coronamento negli studi universitari, presso l’Università di Ibadan, e nelle diverse collaborazioni con gli ambienti accademici che seguiranno. Allo studio si accompagna un grande interesse per la scrittura e per il teatro; nei primi anni ’60 lavora per una compagnia teatrale, mentre sul piano della scrittura di narrativa la sua opera più conosciuta, “Sozaboy: A Novel in Rotten English”, risale al 1985. Non meno significativo è il lavoro di Ken Saro-Wiwa nel mondo televisivo, dove nelle vesti di produttore crea la serie TV di successo “Basi & Company”, in onda in Nigeria e poi in altri paesi africani alla fine degli anni ottanta.

Momento di forte sconvolgimento per la vita di Ken e per la Nigeria intera è lo scoppio nel 1967 della guerra civile fra il popolo Igbo, le cui spinte indipendentiste si concretizzano nella proclamazione della Repubblica indipendente del Biafra, il governo centrale che porta avanti una dura repressione che proverà drammaticamente la popolazione civile. In questo periodo riveste l’incarico di amministratore nella città di Bonny e inizia a dare il proprio sostegno alla battaglia per il riconoscimento dell’autonomia del popolo Ogoni, sostegno per cui nei primi anni settanta verrà sollevato dall’incarico di Commissario regionale per l’Educazione nello stato di Rivers.

E’ tuttavia a partire dagli anni novanta che l’impegno politico di Ken Saro-Wiwa entra nel vivo, dedicandosi pienamente alle cause di difesa dei diritti umani e dell’ambiente, in particolar modo in Ogoniland. Alla base delle rivendicazioni vi era una condizione di profondo sfruttamento del popolo Ogoni che non solo era piegato da una povertà diffusa ma era al contempo minacciato dall’inquinamento e dalla distruzione dei territori causati dalle grandi multinazionali del petrolio. La regione abitata dal popolo Ogoni, situata nel delta del fiume Niger, era – ed è tutt’ora – un pozzo di oro nero, i cui proventi non avevano alcuna ricaduta nell’economia locale mentre i costi umani e ambientali erano al contrario altissimi. Momento chiave per la battaglia del popolo Ogoni fu la costituzione del MOSOP (Movement for the Survival of the Ogoni People), di cui Ken Saro-Wiwa fu uno dei primi fondatori. Le richieste del movimento furono messe nero su bianco nell’ Ogoni Bill of Rights, documento in cui erano posti come obiettivi centrali una maggiore autonomia, la gestione compartecipata delle risorse petrolifere e un risarcimento per i danni provocati dalle politiche scellerate delle multinazionali, puntando il dito in modo particolare contro la Shell. L’accusa, più volte ribadita da Ken Saro-Wiwa, è quella di sistematico genocidio nei confronti della popolazione Ogoni.

La lotta portata avanti da Ken Saro-Wiwa e il MOSOP è sempre stata una lotta nonviolenta e pacifica, che trova uno dei suoi momenti più alti sul piano mediatico anche internazionale nella marcia pacifica organizzata nel gennaio del 1993, a cui presero parte circa 300.000 persone. Tutt’altro che pacifica fu invece la risposta del governo dittatoriale: lo stesso anno la regione fu occupata militarmente e nello stesso periodo Ken Saro-Wiwa e altri attivisti furono arrestati e poi rilasciati.

Il 24 maggio 1994 quattro capi Ogoni contrari alle istanze del MOSOP sono assassinati: pur essendo evidentemente innocente e estraneo ai fatti (il giorno dell’attentato non era in Ogoniland) Ken Saro-Wiwa e altri otto attivisti vengono arrestati. Ha inizio una lunga detenzione, durante la quale anche grazie a diverse organizzazioni internazionali come Greenpeace e Amnesty International viene portata l’attenzione sull’ingiusta incarcerazione e in generale sulle condizioni del popolo Ogoni e della loro terra.

Il 10 novembre 1995 nella prigione di Port Harcout Ken Saro-Wiwa, in seguito ad un processo farsa, è condannato a morte per impiccagione insieme ad altri otto attivisti. L’esecuzione è accolta da una generale condanna da parte della comunità internazionale: posizione particolarmente critica è assunta dal Sudafrica di Nelson Mandela, che spinge per l’estromissione della Nigeria dal Commonwealth.

Qui trovi il disegno ad alta definizione, realizzato da Margherita Finardi, che puoi trovare su instagram @yoko_doingthings.

 

 

 

 

 

Dorothy
Stang

“Se oggi qualcosa di grave deve capitare, capiti a me e non agli altri che hanno una famiglia”

Dorothy Stang, conosciuta da tutti come Irmã Dorote, fu una religiosa e missionaria brasiliana di origine statunitense, appartenente alla congregazione delle Suore di Nostra Signora di Namur. Per tutta la vita si batté a fianco dei contadini dell’Amazzonia brasiliana per difendere la loro Terra. 

Il 12 febbraio 2005 fu uccisa con sei colpi di pistola, quando aveva 73 anni, mentre si trovava nella città di Anapu, nello Stato del Parà, per le sue ripetute proteste contro le aziende responsabili della deforestazione e delle cattive condizioni di vita dei lavoratori della Foresta Amazzonica e più precisamente per aver continuato a testimoniare, anche dopo aver ricevuto minacce di morte da parte di industriali del legname e proprietari terrieri, contro il principale motivo della deforestazione, ovvero l’agricoltura, per lo più piantagioni di soia per bovini. La missionaria ambientalista incoraggiò le popolazioni locali a proteggere la foresta e ad affidarsi a tecniche di agricoltura sostenibile e proprio per queste sue attività che, evidentemente contrarie agli interessi degli speculatori e dell’agribusiness, già negli anni Novanta finì sulla lista nera dei personaggi scomodi che avrebbero dovuto essere eliminati.

Irmã Dorote faceva parte, dal 1948, delle Suore di Nostra Signora di Namur, congregazione fondata nel 1804 da Santa Giulia Billiart. 

Dal 1951 al 1966 insegnò alla St. Victor School Calumet City (Illinois), alla St. Alexander School Villa Park (Illinois) e alla Most Holy Trinity School Phoenix (Arizona).

Arrivò in Brasile nel 1966, iniziando il suo ministero pastorale nello Stato del Maranhão. 

Il suo impegno come missionaria non fu legato soltanto alla religione. Si unì, infatti, ai movimenti sociali che nacquero nello Stato del Parà per fermare il disboscamento dell’Amazzonia, al fianco dei contadini e degli operai della Transamazzonica. Partecipò attivamente ai lavori della CNBB, la Conferenza Nazionale dei Vescovi Brasiliani e, soprattutto, alla Comissão Pastoral da Terra (CPT), diede grande aiuto nella fondazione della Scuola di Formazione di professori per la Transamazzonica. 

Solo dopo la morte di Dorothy Stang, il presidente brasiliano Luiz Inacio da Silva prese la decisione di porre una parte della foresta amazzonica sotto la protezione federale; il territorio protetto si trova nella regione di Anapu, proprio dove viveva la missionaria ambientalista. 

Nel 2004 è stata premiata dall’Ordine degli Avvocati in Brasile, nello Stato del Pará per la sua difesa dei diritti umani. 

Nel 2005 ha ricevuto onorificenze per il libro-DVD Amazònia Revelada.

Per il suo impegno venne definita ‘la prima martire del Creato’. 

Il suo coraggio e il suo impegno ora sono riconosciuti in tutto il mondo: oggi Dorothy Stang è considerata un modello per chi lotta per la difesa dell’ambiente e per i diritti umani e ci ricorda che nel mondo molte persone si impegnano per proteggere il Pianeta e i più deboli anche mettendo a rischio la propria vita.

Qui il disegno ad alta definizione, realizzato da Tommaso Casati, che potete trovare su instagram @_mr.camell_.

 

 

 

 

 

 

  John
Lewis

Fu un’ attivista americano per i diritti civili marciò con M. Luther King e si oppose sempre a qualunque tipo di ingiustizia.

Frase significativa “Do not get lost in a sea of despair. Do not become bitter or hostile. Be hopeful, be optimistic. Never, ever be afraid to make some noise and get in good trouble, necessary trouble. We will find a way to make a way out of no way.”

Sull’ambiente e su chi sta combattendo contro la crisi climatica disse: “These young people are saying we all have a right to know what is in the air we breathe, in the water we drink, and the food we eat….It is our responsibility to leave this planet cleaner and greener.”

L’infanzia e l’adolescenza

Lewis è nato in Alabama, precisamente nella città di Troy, nel 1940. I suoi genitori erano mezzadri. Per i primi anni della sua vita non ha conosciuto molti bianchi: trascorreva le giornate in aperta campagna, in mezzo agli animali. All’età di sedici anni, tuttavia, qualcosa è cambiato. Forse la sua stessa esistenza. Insieme a fratelli e sorelle si è recato in centro per andare in biblioteca. Giunti là, però, non sono potuti entrare: l’ingresso ai neri non era consentito.

Solo un anno dopo, il giovane Lewis ha conosciuto Rosa Parks, divenuta celebre qualche tempo prima per essersi rifiutata di cedere il posto sull’autobus a un bianco, dando così origine al boicottaggio dei bus a Montgomery, quando gli afroamericani hanno deciso di non viaggiare più a bordo di quei mezzi, sui quali vigeva la segregazione razziale. Una protesta cui ha preso parte anche Martin Luther King, incontrato per la prima volta nel 1958.

All’università, frequentata nel Tennessee, Lewis ha organizzato dei sit-in e altre manifestazioni studentesche riuscendo ad ottenere la convivenza fra bianchi e neri nelle mense scolastiche.

La marcia su Washington

Insieme a Martin Luther King, nel 1961 è diventato uno dei tredici, storici freedom riders: insieme a gruppi di attivisti di varie etnie, hanno viaggiato sulle linee interstatali del sud per abbattere le barriere e le convinzioni sociali tipiche dei bianchi meridionali, per i quali i posti dovevano essere separati a seconda della razza.

Due anni dopo, non solo è divenuto presidente dello Student nonviolent coordinating committee (che aveva contribuito a fondare), ma è anche stato fra gli organizzatori della marcia su Washington, i famosi big six dei quali faceva parte anche King. Quel giorno è stato memorabile. Lewis ha parlato per primo, poi King ha pronunciato il suo famosissimo discorso I have a dream. Un sogno che, purtroppo, ancora non si è realizzato.

Il bloody Sunday

Nel 1965, precisamente il 7 marzo, John Lewis è sopravvissuto ad un tragico episodio passato alla storia come bloody Sunday. Ha condotto, insieme all’amico Hosea Williams, oltre seicento attivisti lungo il ponte Edmund Pettus a Selma, in Alabama. La polizia, però, ha reagito in maniera violenta contro i manifestanti, picchiandoli con i manganelli. Lewis ha subìto una frattura del cranio e da quel giorno ha “indossato” le cicatrici quasi come fossero il simbolo di “una battaglia che dura una vita”, come lui stesso ha definito la lotta per il riconoscimento dei diritti degli afroamericani.

“Non si può avere paura di parlare e far sentire la propria voce riguardo a qualcosa in cui si crede. Bisogna avere coraggio. Puro coraggio.” John Lewis

Dopo un periodo a New York, Lewis è volato ad Atlanta, in Georgia, che poi è rimasta la sua casa fino alla morte. Si è sposato nel 1968 con Lillian Miles, conosciuta ad una festa di Capodanno, dalla quale ha avuto un figlio: John-Miles. Lei è morta proprio il 31 dicembre, del 2012.

La carriera politica in Georgia

Il novembre del 1986 è stato un mese fondamentale nella vita del leader, eletto membro della Camera dei rappresentanti per lo stato della Georgia. Ha quindi assunto ufficialmente l’incarico il 3 gennaio del 1987. È stato rieletto ben sedici volte.

Durante la carriera politica, da membro del Partito democratico, non ha visto di buon occhio l’elezione di George W. Bush nel 2000, mentre ha sostenuto la campagna di Obama nel 2008 e paragonato l’attuale presidente Donald Trump a George Wallace, quarantacinquesimo governatore dell’Alabama noto per le sue posizioni segregazioniste e populiste. In vista delle presidenziali di quest’anno, Lewis ha dato il suo appoggio a Joe Biden.

Una battaglia lunga una vita

Ogni anno ha fatto ritorno in Alabama per commemorare la marcia da Selma a Montgomery. Nel 1998 ha rimesso piede, dopo 42 anni, nella libreria dalla quale era stato cacciato da ragazzino. È stato accolto con affetto sia dai neri sia dai bianchi e ha firmato per loro alcune copie del suo libro Walking with the wind: a memoir of the movement. Ha insistito per istituire, nella capitale statunitense Washington, il Museo nazionale della storia e della cultura afroamericana, che ha aperto i battenti il 25 settembre del 2016. Ad Atlanta, nella walk of fame degli attivisti per i diritti civili, ci sono anche le sue impronte.

La malattia

A dicembre del 2019 ha dichiarato di avere un cancro al pancreas al quarto stadio. Una battaglia nuova per lui. Tuttavia, non ha mai smesso di lottare per ciò in cui credeva, tanto da scendere di nuovo in piazza con i dimostranti del movimento Black lives matter, le cui proteste hanno infiammato gli Stati Uniti, e non solo, dopo il brutale assassinio da parte di un poliziotto di George Floyd, afroamericano. Per Lewis è stato come un ritorno al passato, e vedere l’impegno di questi ragazzi lo ha fatto commuovere.

La morte

Il grande leader se n’è andato la notte del 17 luglio 2020, lasciando un enorme vuoto sia nella sua famiglia che nella società statunitense. L’annuncio è arrivato dalla speaker della Camera, Nancy Pelosi, che l’ha ricordato come “uno dei più grandi eroi della storia americana. Un titano del movimento per i diritti civili, la cui bontà, fede e coraggio hanno trasformato un’intera nazione. John Lewis ha dedicato ogni singolo giorno della sua vita al raggiungimento della libertà e della giustizia per tutti”.

Qui il disegno ad alta definizione, realizzato da Enzo Furfaro, che puoi trovare su instagram @nobodysavesnobody e sul suo sito.


 

 

 

 

 

 

Judith
Butler

Gli anni ’90 del secolo scorso vedono emergere — dopo anni di studi tra Yale e Heidelberg — Judith Butler; classe 1956, statunitense di origini ebraiche russo-ungheresi, si impone nel panorama filosofico e sociale prendendo le mosse dal femminismo e dalle teorie di genere. Misurandosi con il pensiero di diversi filosofi e non solo ha impresso una svolta consistente alla filosofia occidentale, nonché all’attivismo e alla pratica filosofica in ambito politico. Il pensiero di Butler è da sempre rivolto all’umano, sin dai suoi primi scritti ha cercato di mettere in discussione l’autonomia del soggetto, la sua supposta trasparenza e indipendenza mostrando, piuttosto, il suo essere frutto di un intenso lavorio discorsivo e pratico che nel tempo è divenuto disciplina. Come affermerà anche in Bodies that matter: on the discursive limits of “sex”, la serie di parametri usati per identificare un individuo — come sesso e genere — non hanno un significato naturale e neutrale perché non vi è niente che sia immune dall’interpretazione culturale umana, sono quindi anch’essi dei significati ben strutturati. Grazie a Butler sappiamo che ogni sostantivo rispecchia delle esclusioni, che “uomo” è sinonimo di maschio, bianco, eterosessuale, sano, occidentale e benestante. Si avvicina così alla queer theory, affermando che nessun soggetto può legittimamente essere identificato, e quindi descritto, sulla base delle sue caratteristiche, nemmeno quelle di genere. Il suo lavoro ha mostrato le esclusioni sulle quali si regge la nostra pratica discorsiva, il nostro orientamento nel mondo, portando alla luce le vittime di questa impostazione come le donne, gli omosessuali, le persone transgender, i poveri e gli infanti. La proposta di Butler è quella di accettare il sé come un qualcosa di non totalmente conoscibile, una proposta che mira all’abbandono di ogni pretesa di identità fissa, coerente e continua nel tempo.

Qui il disegno ad alta definizione, realizzato da Francesco De Sanctis, che potete trovare su instagram @j.e.s.k.i e sul suo sito.

 

 

 

 

Sarah
Hegazi

Sarah Hegazi è stata un’attivista egiziana per i diritti umani e LGBTQ+, arrestata, in seguito alla pressione internazionale per il suo rilascio, aveva ottenuto l’asilo politico e viveva in Canada. Nel 2010, Hegazi si è laureata in Sistemi Informatici presso la Thebas Academy, continuando i suoi studi all’Università Americana del Cairo nel 2016. Attraverso l’apprendimento online, ha successivamente completato studi in “Femminismo e giustizia sociale”, “Metodi di Ricerca”, “Diversità e inclusione sul posto di lavoro” e ” Comprensione della violenza” presso l’Università della California, Santa Cruz, la School of Oriental and African Studies, l’Università di Pittsburgh e l’Università Emory. Il 22 settembre 2017, Sarah Hegazi partecipava ad un concerto della band libanese Mashrou’ Leila quando è stata arrestata insieme a un gruppo di altre persone per aver sventolato una bandiera arcobaleno a sostegno dei diritti LGBTQ+. Il suo arresto ha coinciso con la risposta repressiva a tolleranza zero dell’Egitto per porre fine al sostegno pubblico dei diritti LGBTQ+ nel paese. Incarcerata, picchiata e violentata da poliziotti e detenuti è stata rilasciata dopo tre mesi su cauzione e multata per 2.000 lire egiziane (circa 113 dollari). Ottenuto l’asilo politico, in seguito si è trasferita in Canada; affetta da disturbo da stress post-traumatico a seguito della tortura subita in carcere in Egitto, si è suicidata il 14 giugno 2020. È stata sepolta in una bara arcobaleno, dopo un funerale pubblico, nel Dixie Cementery di St. John il 22 giugno 2020.

Qui il disegno ad alta definizione, realizzato da Svetlana Grigorenko, che potete trovare su instagram @ffalse.prophet.

 

 

 

 

 

 

Angela
Davis

Davis è nata nel 1944 e cresciuta in Alabama. La sua prima politica fu innescata dall’estrema ingiustizia politica, razziale ed economica a cui era stata testimone e fu informata dai gruppi che vedeva lavorare per il cambiamento. Tra loro c’era il Partito Comunista, che aveva una lunga storia di organizzazione per le riforme nel sud. Una studentessa brillante, Davis ha ricevuto una borsa di studio per frequentare una scuola superiore progressista a New York City. La sua formazione universitaria l’ha portata alla Brandeis University vicino a Boston, dove ha studiato con il teorico politico Herbert Marcuse. Ha seguito i corsi alla Sorbona di Parigi, poi ha iniziato il dottorato in filosofia nella Germania occidentale. Il fiorente movimento Black Power costrinse Davis a tornare negli Stati Uniti per unirsi alla lotta. Si stabilì nel sud della California, lavorando brevemente con le Pantere Nere prima di concentrare le sue energie su un ramo tutto nero del Partito Comunista, il Che-Lumumba Club. Le convinzioni politiche sostenute da Angela Davis avrebbero minacciato la sua carriera accademica nel 1969. Nominata presso l’Università della California, Los Angeles, al suo primo incarico in facoltà, fu presto licenziata a causa della sua appartenenza al Partito Comunista. L’azione dell’università ha scatenato un dibattito nazionale sulla libertà accademica e ha spinto Davis agli occhi del pubblico. Brillante studiosa e teorica politica, Davis è diventata un attivista schietto nella comunità nera di Los Angeles. È diventata un simbolo, non solo come figura politica, ma anche come ideale di femminilità nera. Con la sua visibilità nazionale in aumento, Davis ha ricevuto lettere di odio e minacce di morte, ma ha continuato a parlare. Il suo lavoro includeva l’organizzazione per conto dei fratelli Soledad, tra cui George Jackson, autore di un libro di lettere carcerarie, Soledad Brother (1971). Il fratello adolescente di Jackson, Jonathan, ha accompagnato Davis nelle apparizioni pubbliche come guardia del corpo informale. Il 7 agosto 1970, in un tentativo sfortunato di liberare suo fratello che era sotto processo, Jonathan Jackson rilevò un’aula di tribunale della contea di Marin nel nord della California. La sparatoria che ne seguì uccise Jonathan, il giudice e altri due. In possesso di Jonathan c’erano pistole che Davis aveva acquistato per autodifesa. Dato il clima politico teso dell’epoca, Davis presumeva che sarebbe stata falsamente accusata di complicità nell’attacco. Catturata nell’ottobre 1970, è stata accusata di rapimento e omicidio. Processata da una giuria di soli bianchi, è stata dichiarata non colpevole nel 1972. Dichiarata innocente e liberata dalla prigione nel 1972, Angela Davis ha continuato a lavorare come professoressa, autrice e intellettuale pubblica. È rimasta fortemente impegnata nel pensiero e nell’organizzazione antirazzista e anticapitalista e ha ripreso a parlare contro la violenza di stato, l’imperialismo e lo stato carcerario. Angela Davis si è dichiarata lesbica su Out Magazine nel 1997, da allora ha continuato a lavorare instancabilmente per combattere l’ingiustizia, inclusa quella all’interno della sua stessa comunità.

Qui il disegno ad alta definizione, realizzato da Carlo Capitanio, che puoi trovare su instagram @cabotcove.bg e su facebook

 

 

 

 

 

  Malone
Mukwende

Sin da piccolo, Malone Mukwende ha sviluppato un interesse per la scienza e per il modo in cui le persone si comportano quando stanno bene e quando non stanno bene. Quel tipo di curiosità a livello scientifico, insieme alle sue capacità, lo hanno portato a studiare medicina. Tuttavia, 3 anni fa, quando è entrato alla facoltà di medicina presso la St George’s, Università di Londra, Mukwende ha notato che una buona parte della popolazione veniva esclusa dai materiali di studio e che agli studenti di medicina veniva insegnato solo come diagnosticare le malattie sui pazienti bianchi. Vi era quindi una vera e propria mancanza di un archivio sintomatologico riguardante la pelle più scura, non capendo il perchè di ciò, Mukwende ha provato a sottoporre questo quesito ad alcune persone del settore, senza tuttavia trarne delle risposte soddisfacenti. Per questo motivo ha deciso di affrontare questo problema inizialmente in maniera individuale e successivamente con la collaborazione dei professori Tamony e Turner. 

Grazie a questo progetto di partnership fra studenti personale medico, i tre hanno sviluppato il manuale “Mind the gap”. Il manuale, che è consultabile online sul sito Black and Brown Skin, incude immagini, descrizioni, segni e sintomi clinici sulla pelle nera. Nonostante questo lavoro di raccolta non sia stato semplice, data la scarsità di immagini di pelle nera su internet, il risultato ad oggi può dirsi senz’altro soddisfacente: dalla sua pubblicazione ad agosto il manuale è stato consultato in 102 paesi e aggiunto agli elenchi di letture consigliate in molte università e ospedali del Regno Unito. 

Nel sito Black and Brown Skin è anche possibile inviare le proprie immagini o storie personali in modo anonimo per integrare e aumentare il contenuto del manuale. Il suo scopo è quello di consentire dunque alle persone che sono state messe a tacere per molti anni di essere in grado di aggiungere e fornire risorse, che verranno raccolte in in una banca di immagini. Il manuale e il sito Web non si concentrano solo su questioni di dermatologia, ma includono la presentazione e descrizione di condizioni diverse. Mukwende, Tamony e Turner sperano che questo libro sia l’inizio di un dibattito e dell’introduzione di cambiamenti nell’educazione medica, al fine di lavorare a livello comunitario per ridurre le disuguaglianze in campo sanitario.

 

 

 

 

 

 

Giorgio
Di Ponzio

“Taranto ha bisogno che la scuola prepari i ragazzi per un pensiero diverso, a un modo di formarsi diverso per un futuro senza inquinamento”

Sono le parole della madre di Giorgio Di Ponzio, ragazzo di Taranto morto nel gennaio del 2019 per un tumore contro cui ha combattuto per tre anni.

La causa della sua malattia è riconducibile al forte inquinamento ambientale prodotto dall’ILVA. L’acciaieria a ciclo integrale più grande d’Europa ha causato un aumento del rischio di linfomi del 90% nella fascia di bambini in età pediatrica.

La malattia di Giorgio ha infatti colpito molti altri suoi coetanei e per questo un gruppo di padri e madri tarantini hanno formato l’associazione genitori tarantini, il cui scopo è quello di mettere in luce la grave situazione sanitaria che affligge la città e porre fine alle drammatiche situazioni a cui le famiglie di Trento sono esposte.

Qui il disegno ad alta definizione, realizzato da Daniele Gervasoni, che puoi trovare su instagram, facebook e anche sul suo sito.


 

 

   

  Fernando
Aiuti

Nato a Urbino nel 1935, Fernando
Aiuti si era laureato in medicina nel 1961 alla Sapienza di Roma, dove poi assunse fino al 2007 il ruolo di professore ordinario di Medicina interna, direttore e docente della Scuola di Specializzazione in Allergologia e Immunologia clinica, e coordinatore del dottorato di ricerche in scienze delle terapie immunologiche, la sua carriera scientifica è documentata da oltre 600 pubblicazioni. Nel 1991 la foto del bacio alla donna sieropositiva divenne un gesto simbolico: con questo gesto Aiuti voleva dimostrare che il virus dell’Hiv non si poteva trasmettere per via orale, in un’intervista raccontò che quel bacio dato alla donna sieropositiva “è servito a togliere dubbi a molte persone, ma non a tutti, visto che esistono ancora questi episodi di non conoscenza del problema”. Commentando la sua scomparsa, Rosaria Lardino, la donna del bacio, ha ricordato così l’immunologo: “La scomparsa di Fernando Aiuti mi addolora moltissimo. Ci sono uomini che per il valore che sanno apportare alla comunità scientifica e culturale dovrebbero godere dell’immortalità”, ha detto. “Di Fernando porterò con me per sempre il suo coraggio. Il nostro bacio altro non era che un grido e un richiamo al coraggio di parlare di Aids, di andare avanti con lo studio e con la ricerca, di informare e di curarsi”. Aiuti ha portato contributi originali alla diagnosi e terapie di malattie come quelle da immunodeficienza primitiva, infettive, autoimmuni, reumatiche, e allergiche; ha inoltre condotto altre ricerche significative sulla vaccinazione contro il virus Hiv-1 e diagnosi e terapia della infezione da Hiv-Aids, ed è stato anche membro del Consiglio superiore di sanità. Il suo impegno è stato diretto anche nei confronti della popolazione, con l’obiettivo di dare messaggi utili per evitare comportamenti a rischio causa di trasmissione di malattie infettive e veneree, ha inoltre lottato per combattere lo stigma nei confronti degli omosessuali. Eletto nel 2008 come capolista del Pdl al Campidoglio, dal 2008 fino al 2013 è stato presidente della Commissione politiche sanitarie di Roma Capitale. Nel 2010 era stato nominato dal ministro dell’Istruzione professore emerito a vita dell’università Sapienza di Roma. Fernando Aiuti, morto all’età di 83 anni è stato immunologo di fama mondiale, conosciuto soprattutto per il suo contributo alla ricerca e alla sensibilizzazione nella lotta contro l’Aids, era un punto di riferimento per la medicina e la scienza, il contributo di Aiuti fu cruciale nel 1985, quando fondò l’Associazione per la lotta contro l’Aids (Anlaids), prima associazione italiana nata per fermare la diffusione del virus Hiv, di cui era presidente onorario.

 

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